Pensare il teatro. Un’imprecazione d’amore
Viaggi in carrozzina – l’Espresso
Viaggi in carrozzina
di Rita Pelusio, Pensare il teatro. Un’imprecazione d’amore
Eccoci alla terza puntata del secondo ciclo di Pensare il teatro. C’è una novità. Si è unito al progetto l’artista masì, anche con lui ne vedremo delle belle.
Intanto ascoltiamo le parole Rita Pelusio. Mi ha sempre affascinato l’energia di questa artista, che sa sorridere e farci ridere, nel mentre castigare i nostri costumi. Rita è un’attrice e regista comica. La sua è un’arte complessa. Sono sempre stato convinto che sia più semplice far piangere, e che per guidare al riso ci voglia una grande arte.
di Rita Pelusio
Un’imprecazione d’amore
Il teatro per me è un’imprecazione d’amore.
Lo spettacolo la sua pronuncia.
Ho sempre pensato che mettere a servizio di una causa la propria arte fosse il compito di un’artista.
Le urgenze della vita, le riflessioni, le fragilità umane mi chiamano a raccolta.
Il mio percorso di formazione pur iniziando dalla via più classica ha subito svoltato nel vicolo più stretto, in quel pertugio misterioso che è l’Arte Comica.
Da subito mi ha affascinato questo linguaggio purtroppo ancora troppo poco conosciuto e riconosciuto in Italia.
I primi passi li ho mossi in strada, con un pianoforte e in bocca un pacchetto intero di chewing-gum con le quali facevo virtuosismi sgraziati e beffardi davanti ad un pubblico che mi accoglieva e rimaneva ad ascoltare i miei componimenti satirici accompagnati da uno scomposto sottofondo musicale.
La strada è una scuola di vita, è una morsa incantevole è materia viva per chi vuole fare questo mestiere.
La strada non dà scampo: o funzioni o il pubblico se ne va, o sei autentico o il pubblico ti saluta, o hai qualcosa davvero da dire o il pubblico ti biasima.
Questa è stata la mia palestra prima di arrivare sul ring fatto di assi e corde e vellutati sipari.
Ma non dimentico la mia provenienza, non la rinnego, perché per me è stata fondante.
Per questo credo che il teatro non debba mai mentire ai suoi spettatori, perché anche essi fanno parte di quel gioco, hanno diritto di comprendere e capire e anche se assistono soltanto allo svelamento della scena ne sono infine i destinatari e i protagonisti.
Occorre avere molto rispetto del pubblico, occorre avere grazia e cura, perchè quando arriva alla tua porta per conoscerti non puoi lasciarlo sullo zerbino ad aspettare.
Il teatro comico ha mille colori e altrettante forme, disegnarle tutte è impossibile.
La contaminazione tra i vari linguaggi e i talenti che appartengono alla singola individualità dell’attore richiede completezza di ingegno, richiede coraggio.
Si va in scena onesti, nudi, come i bambini che rispondono alla domanda quanto bene mi vuoi, noi allarghiamo le braccia: “Tanto così!”.
Purtroppo l’arte comica viene spesso considerata marginale (a causa di una deriva televisiva che ha portato ad un fraintendimento enorme ) e ci si trova quasi a doverne rivendicare l’ importanza.
C’è una strana forma di proibizionismo teatrale per il quale ironia, comicità e satira vengono ritenute di poco conto, quasi che il motto di spirito non possa contenere in sé un valore immenso.
Per quanto mi riguarda il riso è un diritto e il teatro come qualsiasi altra arte dovrebbe contemplarlo.
Il teatro comico è anche una scelta quotidiana e metterla a servizio di ciò che accade la rende necessariamente civile.
E’ sovente che siano proprio i Saltimbanchi i primi a intraprendere azioni poetiche, Ecco perchè li vediamo al confine accanto ai migranti, li vediamo nei campi profughi, li vediamo nelle baraccopoli delle periferie e li vediamo esibirsi per i senza tetto che di notte popolano la nostra città perché il loro è un linguaggio universale.
L’hanno imparato praticando il vero e unico spazio pubblico che è la piazza adempiendo così all’antica funzione che il teatro aveva in origine.
Eppure quest’anno ho letto più volte articoli dell’intellighenzia dove questa parola veniva utilizzata in senso denigratorio e dispregiativo.
Da dove arrivi tanto livore non so, ma di certo me ne dispiaccio ogni volta.
Chi sono?
Son forse un poeta?
No certo.
Non scrive che una parola, ben strana,
la penna dell‘anima mia:
follia.
Son dunque un pittore?
Neanche.
Non ha che un colore
la tavolozza dell‘anima mia:
malinconia.
Un musico allora?
Nemmeno.
Non c’è che una nota
nella tastiera dell’ anima mia:
nostalgia.
Son dunque… che cosa?
Io metto una lente
dinanzi al mio core,
per farlo vedere alla gente.
Chi sono?
Il saltimbanco dell’anima mia.
(Aldo Palazzeschi, da Poemi 1909)